Da sempre l’uomo va alla ricerca della “felicità”, e si adopera e si arrovella per raggiungerla, conquistarla e mantenerla.
“Felicità” è sinonimo di stato di immensa gioia e beatitudine, ma vi sfido ad ottenere da qualcuno una definizione, che non sia vaga e terribilmente retorica.
Qualcuno la identificherà con uno stato sociale elevato, altri nella ricchezza, altri ancora nel raggiungimento di un amore imperituro e perfetto, ma tutti, dopo aver raggiunta la meta che avrebbe dovuto elargire loro l’ambito premio, dovranno ammettere di non sentire ancora pienamente soddisfatto il loro desiderio, e si vedranno costretti a cercare altrove, in un continuo, drammatico crescendo.
Già dai primordi, quando nel giardino dell’Eden Adamo ed Eva, immersi in uno stato di perfetto appagamento, appena solleticati nella propria ambizione, cominciarono a sentirsi insoddisfatti, si spinsero a desiderare qualcosa di più, ed iniziarono a tormentarsi nel tentativo di raggiungere…. ”non sapevano neanche loro cosa”.
Da quella iniziale insoddisfazione discende la “nostra”, sempre in agguato a renderci infelici, dopo ogni conquista, sia essa grande od insignificante.
E’ l’insoddisfazione il male dell’umanità, sebbene molti pensino che proprio l’insoddisfazione sia la molla che ha fatto “progredire” l’uomo sulla via della scienza e della conoscenza.
Il ”progresso” ha avuto il merito di farci conoscere il mondo e l’universo, ma ci ha allontanati dalla conoscenza di noi stessi; siamo andati scoprendo moltissimo sulle cose che ci circondano, ma abbiamo tralasciato di conoscere il nostro animo ed i suoi meccanismi.
Il “desiderio” comporta sofferenza, se non altro per gli sforzi che ci costringe a fare per soddisfarlo, e delusione, una volta che i nostri sforzi hanno avuto successo.
Tutti abbiamo sperimentato che alla febbre, talvolta piacevole, che ci coglie, quando desideriamo qualcosa, sia essa materiale o di altro genere, segue sempre uno stato di appagamento iniziale e di indifferenza, dopo il suo raggiungimento.
E’ come se fossimo costretti a volere sempre di più, per essere felici.
E in questo sta la chiave del problema; se il desiderare porta a desiderare sempre di più, accrescendo l’insoddisfazione e la sofferenza, allora la soluzione potrebbe stare nel cessare di desiderare.
E’ forse più felice l’uomo cha ha raggiunto un alto livello sociale, una grande ricchezza ed ha riunito attorno a se un nugolo di “amici”, più o meno sinceri, che cercano di trarre da lui qualche vantaggio, costretto ogni giorno ad escogitare nuovi mezzi per non decadere dalla sua posizione, o l’uomo che vive sulle rive del fiume con la sua tribù, e si contenta di quello che può ottenere cacciando, con strumenti primordiali, come facevano i suoi antenati e come faranno dopo di lui i suoi figli?
Trascinati dalla corrente del fiume della vita, è opportuno tentare di opporsi al suo trasportarci dolcemente verso la foce ed il mare, disperdendo inutilmente energie e tranquillità, o non è meglio lasciarci andare, senza affanni, godendo di quanto possiamo vedere nel nostro passaggio sulle rive del fiume che ci ospita?
Per questo, e non per questo solamente, ho deciso che la vita merita di essere vissuta, senza troppa serietà e senza affanno, lasciando semplicemente che ogni cosa passando ci sfiori, lasciando che la sua carezza si posi sulla nostra pelle, consapevoli che tutto passa, si trasforma, muta in continuazione e che quello che oggi ci pare meraviglioso, domani sarà solo un ricordo sbiadito, e quello che oggi pare ferirci in modo apparentemente grave, non avrà su noi nessun potere malefico tra qualche attimo.
Allora credo che la felicità possa essere raggiunta col non proporre, a noi stessi, mete, che paiono al momento indispensabili e divengono subito dopo inutili, e col lasciare che le cose ci sfiorino, pur senza segnarci in modo profondo, facendocele apprezzare per quello che sono e non per quello che vorremmo che fossero.
Giuseppe.